domenica 6 marzo 2016

CHAIM POTOK GRANDE CANTAUTORE DEGLI EBREI (NEW YORK 1929 - MERION PENSYLVANIA 2002)


Vorrei ricordare CHAIM POTOK attraverso un'intervista rilascita a Repubblica nel 1998  all'Hotel Manin di Milano.

Il nonno di mio padre fuggì dalla Russia per evitare i trentacinque anni di servizio militare che gli toccavano come suddito di Nicola I. Scappò fino a Lvov, in Polonia, si fece mugnaio e prese come nome Potok che significa "corso d'acqua veloce". Dunque Chaim, lo scrittore, non sapeva se discendeva da un Coen (un sacerdote), da un Levi (un levita aiutante dei sacerdoti nei lavori del Tempio) o da un semplice figlio di Israele, se ai maschi della sua famiglia sarebbe dovuto toccare un seppur minimale ruolo religioso nella comunità. Ma suo padre - un pio chassid arrivato a   Brooklyn dalla natia Lvov - voleva che facesse il rabbino. Chaim però, a 17 anni, si trovò tra le mani il Ritratto dell'autore da giovane di Joyce, lo lesse, comprese "il senso del potere che il linguaggio e l'immaginazione hanno ai fini dell'organizzazione dell'esperienza", e decise che non avrebbe fatto il rabbino, ma lo scrittore.

Non solo. Decise anche che avrebbe scritto degli ebrei di Brooklyn, e quindi, per aver più dimestichezza con la loro cultura, si iscrisse al Jewish Theological Seminary di New York. C'era la guerra di Corea. Chaim ci passò sedici mesi. Tornò con un'altra chiara determinazione: avrebbe scritto dei rapporti tra gli ebrei e la cultura occidentale. Doveva conoscere meglio pure questa, e si iscrisse all'Università della Pennsylvania per studiare filosofia, concentrandosi su Kant.

La scena letteraria americana era dominata da ebrei come Saul Bellow, Bernard Malamud, Joseph Heller. Quando, nel 1967, Potok pubblicò Danny l'eletto, la sorpresa fu enorme. 
 In quel pomeriggio del settembre 1998, Potok mi disse: " io davo la descrizione di un mondo religioso americano che poteva essere gustato anche dai non ebreie questo era molto insolito. Gli altri autori cercavano di scappare via dall'ebraismo o magari non ci erano mai stati dentro". Poi aggiunse con aria di sfida: "Perché James Joyce, così irlandese, aveva parlato a me? Il romanzo è un genere che può rendere universale le esperienze più particolari, ma a patto che si abbia una buona storia, una storia che permetta di trattare questioni come i rapporti umani di base, la responsabilità verso gli altri, il tradimento di sé o della comunità".Una buona storia: pareva di ascoltare Martin Eden. Con fatica cercavo di riportarlo alle radici, all'ebraismo, alla questione religiosa che afferra i suoi personaggi nella prima infanzia e poi li domina, li stringe, li costringe a scelte tremende sul piano esistenziale. Il protagonista di In principio, per esempio, che tradisce il Talmud per lo studio storico-critico della Bibbia. O Asher Lev, il pittore che, come Chagall, dipinge crocifissi.

Potok, lo scrittore di successo, ascoltava cortesemente, quindi, rispondendo, faceva capire quant'ero ingenua. La storia di Chagall non sarebbe stata una buona storia. Perché "Chagall non lascia l'ebraismo, mentre Asher Lev cerca di restarci. Se fai delle cose fuori dalla tua tradizione, il mondo religioso cui appartieni preferisce che tu ti allontani, che lo abbandoni. Se resti li fai diventare pazzi perché si sentono messi in discussione". La materia che nei suoi romanzi resta incandescente, nella conversazione era raffreddata, solida, ben definita. A una domanda sul senso della memoria per gli ebrei diede una bella risposta da conferenziere: "Gli ebrei hanno inventato la storia, nella Bibbia c'è l'idea che il tempo ha un inizio e una fine e che noi andiamo in una direzione precisa, verso un fine che - lo speriamo tutti, ebrei e cristiani - sarà un fine buono. Diffondendosi col cristianesimo, la concezione biblica del tempo ha la meglio su quella dei pagani: ciclica, che voleva il destino dell'uomo modellato sul ciclo delle stagioni. L'idea biblica del tempo ha mutato il destino dell'Occidente. Se la storia ha un fine, bisogna progettare".



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